Comunicato stampa

Roma, 19 mar. 2018 – “I detenuti non possono essere lasciati nell’apatia totale. Le giornate trascorse sui letti, fissando il soffitto della cella, guardando la televisione, e poi giocando a carte, risultano essere valevoli ai fini del computo della pena, ma non risultano essere particolarmente utili ai fini della rieducazione del condannato. Si tratta di una situazione che è preoccupante e pericolosa, poiché la mancata rieducazione del condannato produce a sua volta delle pesanti ripercussioni sulla sicurezza della cittadinanza. Il vivere lo stato detentivo nella totale inoperosità, dovrebbe essere solo un fatto eccezionale, motivato ad esempio da gravi questioni di salute. In ogni penitenziario della penisola sarebbe, quindi, necessario attivare dei percorsi che siano realmente accessibili a tutti i ristretti e che consentano agli stessi di scegliere autonomamente di cosa desiderino occuparsi durante il periodo della loro detenzione. Potrebbe trattarsi di approfondire l’istruzione, così come potrebbe trattarsi di svolgere delle attività lavorative manuali o intellettuali. Per ragioni di sicurezza e di certezza della pena sarebbe opportuno che tutte le attività venissero svolte all’interno del carcere e per quanto concerne specificamente le prestazioni di lavoro, dovrebbe trattarsi di attività da prestarsi in maniera tendenzialmente gratuita, o quanto meno di attività per le quali sia trattenuta la maggior parte dello stipendio al fine di compensare le spese di mantenimento e comunque tutti i costi sostenuti dallo Stato per il fatto della detenzione. E’ importante che sotto il profilo economico il lavoro in carcere rispetti queste precise caratteristiche perché, a parte la necessità di evitare il paradosso che un detenuto possa arrivare a guadagnare di più dell’agente di Polizia Penitenziaria che deve occuparsene o di più dell’Avvocato che deve difenderlo, il lavoro in carcere non risulta essere pensato per la generazione di un profitto per il reo. Il lavoro in carcere se non è volto anche al risarcimento del danno arrecato alla collettività mediante le condotte antigiuridiche poste in essere, è, comunque, volto sicuramente a far splendere nel detenuto tutta la dignità dell’essere umano, è volto sicuramente alla rieducazione del condannato, al suo recupero come persona, alla sua reintegrazione nella società una volta finita di scontare la pena. Per poter realizzare queste elementari innovazioni nelle carceri italiane, per impegnare, quindi, i detenuti in qualche attività, non servono delle grandi riforme astratte, non serve un grande giurista alla Kelsen che ne stabilisca le modalità di regolamentazione, non servono delle dichiarazioni di principio, e non servono nemmeno delle ingenti risorse economiche. Per poter realizzare queste elementari innovazioni, servono solo un po’ di buona volontà, un po’ di amore autentico per la nostra Costituzione e il suo art. 27, e soprattutto servono quei fatti che, purtroppo, da tanti anni risultano essere troppo pochi, ovvero i fatti concreti”. Così in una nota alle agenzie di stampa, Giuseppe Maria Meloni, portavoce di Piazza delle Carceri e della Sicurezza del cittadino.

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